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Stefano Massini: “Qui la cultura è vita”

«Francesco aveva un aspetto che mi colpiva: credeva davvero che la cultura fosse importante per la vita di tutti i giorni, compresa la vita di chi si trovava a dover affrontare la battaglia per uscire dalle dipendenze». Su questa convinzione condivisa è scattata la sintonia di Stefano Massini con Francesco Cicchi. Massini, scrittore, drammaturgo, attore, in due occasioni è stato protagonista all’Ama Festival. Nel 2019 con dei racconti scenici ispirati al tema di quell’anno “Facciamo che io ero un albero”, e nel 2023 con lo spettacolo “Racconta” accompagnato dall’arpa di Stefano Corsi.
Il tema quell’anno era “I care” ispirato da don Lorenzo Milani, e Massini aveva sviluppato una narrazione di esperienze definite da quello slogan.ente: Tricarico).


Si era stabilito un grande feeling tra di voi. Vi univa una passione per la cultura come avventura di vita e una convinzione sul valore della parola. Ci racconta com’è nata la sua amicizia con Francesco?

Sì. Mi aveva visto a Piazza Pulita e pensava che io potessi portare una voce dove l’arte e la bellezza mostravano il loro risvolto concreto. Gli incontri con lui erano sempre molto belli, percepivi subito una convergenza di intenti. Quando arrivavi ad Ama, respiravi il senso di una cultura viva, non ostaggio del mondo asfittico dell’arte con le sue piccole ambizioni. È stato un rapporto di grande stima e di fiducia reciproca. A questo proposito, ricordo che una volta, parlando con lui, mi aveva raccontato la storia di una ragazza che era nella Comunità dove veniva accolte mamme tossicodipendenti con i loro bambini. Quella storia mi aveva colpito molto anche, perché quella ragazza era toscana come me. Gli chiesi di poterne parlare nello spazio tv che allora avevo e fu molto felice di come venne raccontata quella storia.

Negli spettacoli portati al Festival lei ha sempre tenuto conto del titolo dell’edizione di quell’anno. Concordava con lui qualche tema da raccontare?

No, mi ha sempre lasciato libero, anche perché tra noi s’era stabilita una sintonia immediata. Ricordo, però, che una volta, prima di cominciare lo spettacolo, gli dissi che avrei voluto raccontare di una lettera che avevo ricevuto da un ragazzo tossicodipendente. Lui mi aveva guardato in modo un po’ perplesso e capii che quella mia idea era fuori luogo. Poi mi spiegò che da me si aspettava un racconto del mondo che aprisse i confini della vita di una Comunità, che portasse il mondo lì dentro, non che parlasse di un argomento che veniva percepito come interno. Aveva ragione lui!

Che esperienza è stata per lei recitare sul palco di Casa Ama?

Mi colpiva che quei momenti fossero aperti a tutti e diventassero dei punti di emozione e di riflessione per tutto il contesto sociale che vive in quel territorio.

La Comunità diventava un luogo normale, dove si sviluppavano riflessioni che riguardavano e emozionavano tutti. Per me è stata una cosa molto emozionante. Capivo che la mia funzione era quella di dimostrare che la Comunità non era luogo di segregazione e che il percorso terapeutico si nutriva di questo continuo contatto con

il mondo, a partire dalla bellezza del contesto in cui ci si trovava.

Il suo è un teatro di parola. Anche per Francesco la parola aveva una funzione fondamentale. È un altro punto di convergenza tra di voi?

Certamente. Del resto, prendersi cura degli altri è scegliere le parole, il più grande rischio che corriamo è quello di usare parole preconfezionate, luoghi comuni, verità di cui ci si serve sapendo che verranno condivise. Don Milani sosteneva la stessa cosa, quando prendeva i figli di operai e contadini e voleva offrire loro un’educazione di qualità. L’obiettivo non era farne forzatamente degli intellettuali, ma insegnare loro le parole per diventare esseri umani migliori, condividendo e comunicando con gli altri. Proprio il contrario, invece, di quanto Manzoni fa dire a Renzo: più parole si usano più cercano di fregarti, le parole servono al contrario a raccontare ciò che abbiamo dentro. “Mi prendo cura di te”, quando le cose che ti dico sono quelle che sento. E non a caso il mio incubo ricorrente è raccontare storie usando interamente frasi fatte e stereotipi.

C’è un ricordo particolare che conserva delle sue presenze all’Ama Festival?

Sì. È quella sorpresa delle lanterne di carta che si sono levate in cielo al termine dello spettacolo. È un’immagine che custodisco, anche perché secondo me dice tanto di Francesco e dell’esperienza che attorno a lui è nata. La Comunità non era uno spazio autoprotetto, non un fortino, ma un luogo dove si sentiva sempre palpitare il mondo.