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Giuseppe Frangi: “Essere Francesco, di nome e di fatto”

Ricordo che nel 2012 eravamo usciti con un numero di Vita con un titolo strano, per dar voce ad una imprevista intuizione: “Qui ci vuole un Francesco”. Era l’auspicio che un tipo umano “nuovo” , non morali sta, innamorato degli altri, si facesse largo e diventasse fattore contagioso. Qualche anno prima era uscita una canzone, diventata anche un tormentone, “buongiorno buongiorno io sono Francesco”, che invitava bambine e bambini a non lasciare annegare la scintilla, perché “il mondo può essere diverso tutto può cambiare la vita può cambiare” (la cantava un Francesco, naturalmente: Tricarico).


Invece, qualche mese dopo l’uscita del numero di Vita, la storia ha voluto che un uomo eletto papa scegliesse, per un’illuminazione, di prendere il nome che nessun papa aveva mai preso prima. Francesco era felice del suo omonimo salito sulla cattedra di Pietro. Si ritrovava in quel suo tirarsi fuori dal recinto (niente più segregazione nell’appartamento pontifico ma vita in condivisione in un residence); di più, in quella sua volontà di aprire il recinto per far entrare più gente possibile smettendo finalmente di far la contabilità dei peccati. Il criterio lo aveva dettato l’altro Francesco, il santo, che ai suoi frati scriveva dal guardarsi bene dall’infierire su chi aveva commesso peccati mortali. «E tengano ben segreto il peccato del fratello»; «e non abbiano facoltà di ingiungere altra penitenza che questa: “Va e non voler più peccare”» (Lettera a un ministro generale, forse Frate Elia).
Il tipo umano “Francesco” è un tipo umano sempre alla ricerca dell’incontro con l’altro, con la “a” minuscola o maiuscola poco cambia. Lo racconta lui stesso in una pagina di Pietra: «Sono entrato nella casa di Francesco insieme a due ragazzi delle nostre Comunità e a un prete colombiano. Incontrare il povero di Assisi è abbracciare il coraggio dell’uomo e del Santo che spogliandosi di tutto, è arrivato a rivestirsi pienamente del Tutto in cui credeva. Il suo peregrinare alla ricerca di un incontro, non importa che fosse un lupo o un uccello, umano o natura, ci permette di comprendere quanta paura abbiamo di vivere nell’accoglienza e di quanti compromessi è costellato il nostro cammino».


Il tipo umano “Francesco” è un tipo umano che ama il mondo, che resta incantato dalla sua varietà e bellezza pur vivendo con le mani impastate di realtà, anche della realtà ferita, segnata dai risvolti bui. La bellezza per lui non è estetica, ma è cosa; cosa capace di commuovere e quindi di muovere la vita. La bellezza non è affatto un’esclusiva dei piani alti, economici o intellettuali. La bellezza è ad ogni piano. Anzi più si scende a livello terra e più stupisce e più sembra vera, come quella dei campi e delle vigne che circondano Casa Ama («cielo e terra in me», aveva scritto nella biografia con cui si chiude Pietra). La bellezza la si vede perché lei ti guarda; la si sente perché lei ti chiama; la si vuole ma è lei che ti prende.


Il tipo umano “Francesco” è un tipo umano per il quale nessuno è mai perduto. Chi è più prossimo a perdersi è chi più deve essere amato. E amare è verbo senza condizioni, quindi liberato da pretese taumaturgiche o salvifiche. È un verbo che aveva e ha bisogno di essere risemantizzato per non venire svuotato, banalizzato. Così è diventato un verbo di luogo, o meglio di prossimità. Il Francesco in veste bianca aggiunge un’accezione: amare è sinonimo di “toccare”; toccare l’altro. Qualche secolo fa, in questo caso un Agostino, era stato sibillino: “ama e fa’ ciò che vuoi”. Per questo sulla maglia di Francesco in copertina a quell’Ama chiama un punto esclamativo: un suo discretissimo imperativo…