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Pier Paolo Pasolini: l’uomo sulla soglia

“Infine – questa fu forse la cosa più difficile – 
cercarono e nominarono un giudice
che giudicasse il giudice.”

L’uomo sulla soglia, 
J. L. Borges, L’Aleph

[…] Siamo arrivati dunque al vertice della parabola: come andrà a finire? Udine è a 12-16 km di distanza. La nostra parola d’ordine per ora è di rispondere ad una sleale propaganda anti-italiana con una propaganda più convincente. (…) dovresti scrivere qualche articolo che fa al caso nostro (…) con qualche poesia magari, in italiano e friulano (…) Negli articoli cerca appena di sfiorare gli argomenti suaccennati: devi essere un italiano che parla agli italiani. Mi dimenticavo: i commissari garibaldini (la notizia ci giunge da fonte non controllata) hanno intenzione di costruire la repubblica (armata) sovietica del Friuli: pedina di lancio per la bolscevizzazione dell’Italia!! Ti mando una copia del programma del partito d’azione al quale ho aderito con entusiasmo (…) è bene che tu sappia com’è la situazione anche perché ho bisogno se non altro dei tuoi consigli. Comprendo perfettamente che molto probabilmente tu non hai avrai né tempo né voglia di compilare gli articoli su accennati comunque se hai intenzione di farli: falli al più presto (…) Se non altro almeno scrivi a me qualche riga … Ti bacio con grandissimo affetto. Guido …)
(parte finale della lettera di Guido Pasolini al fratello PierPaolo, 27 Novembre 1944)
Guido Pasolini, “Ermes” il nome di battaglia tra i partigiani friulani della formazione Osoppo, era il fratello minore di Pier Paolo e fu ucciso qualche mese dopo questa lettera, a 20 anni, il 12 Febbraio del ’45, da altri partigiani comunisti agli ordini delle brigate di liberazione jugoslave, nell’eccidio di Porzus. 
L’eccidio di Porzus fu un fatto storico che ben stigmatizzò quei tempi e quei luoghi: Il partito comunista italiano, Togliatti stesso, comandò che tutte le brigate partigiane del nord-est si mettessero al servizio delle armate di Titoin un progetto più ampio di liberazione dal fascismo e di successiva bolscevizzazione della penisola italiana anche fosse stato necessario cedere ampi territori, tra cui Trieste, alla Jugoslavia comunista. Chi non avesse obbedito sarebbe stato giudicato reazionario e passato per le armi. 
Pierpaolo al tempo di questa lettera aveva 22 anni, l’anno prima era fuggito dall’esercito fascista e si era rifugiato nella sua Casarsa dove aveva appena iniziato la carriera letteraria. 
Sono del parere che se non si legge questa lettera che il fratello minore, disperato, scrisse a Pierpaolo, se non ci si mette nei suoi panni di ventiduenne, se non si comprende il senso di colpa, di impotenza e di sconfitta del giovanissimo Pierpaolo, difficilmente si potrà capire il senso, la direzione di tutta l’opera di questo genio Italiano poliedrico e luminoso al pari di Leonardo o Michelangelo. 
Nel 1961, Pasolini rispondendo a un lettore di un suo articolo:
[…] “Egli morì in un modo che non mi regge il cuore di raccontare: avrebbe potuto anche salvarsi, quel giorno: è morto per correre in aiuto del suo comandante e dei suoi compagni. Credo che non ci sia nessun comunista che possa disapprovare l’operato del partigiano Guido Pasolini. Io sono orgoglioso di lui, ed è il ricordo di lui, della sua generosità, della sua passione, che mi obbliga a seguire la strada che seguo. Che la sua morte sia avvenuta così, in una situazione complessa e apparentemente difficile da giudicare, non mi dà nessuna esitazione. Mi conferma soltanto nella convinzione che nulla è semplice, nulla avviene senza complicazioni e sofferenze: e che quello che conta soprattutto è la lucidità critica che distrugge le parole e le convenzioni, e va a fondo nelle cose, dentro la loro segreta e inalienabile verità. “


In queste parole c’è tutto Pasolini: guardare dentro le cose, le più visceralmente complicate e dolorose, senza esitazione. Nulla si compie senza complicazioni e sofferenze. Mantenere l’indipendenza intellettuale, senza compromessi, al costo di restare scoperto, non allineato, va a saggiare con mano il fondo materico delle cose con l’obbligo della lucidità severa sulla propria strada. 
E credo parimenti non si possa intercettare il pensiero di Pasolini se non si guarda anche alla sua infanzia: di origini umili fu costretto dal lavoro del padre, ufficiale di fanteria, a continui trasferimenti annuali. Nato in una foresteria militare crebbe in un continuo trasloco da un paese all’altro, da una casa all’altra con unico riferimento: la madre. 
Il padre fu importante, e conflittuale, per altre ragioni come la nobiltà decaduta del nome di famiglia, la sensualità repressa dal rigore dell’Arma e il fascismo abbracciato senza discussioni. Di animo dandy, sconfitto e poetico fu spesso assente e con molti problemi, fu addirittura incarcerato per debiti e poi deportato dagli inglesi. La vita zingara dietro ai trasferimenti del controverso militare segnò profondamente il ragazzino, il futuro poeta, saggista, scrittore, filosofo, drammaturgo e cineasta e il resto che conosciamo.
Sono questi due eventi che, secondo me, hanno costruito l’uomo sulla soglia. L’uomo non appartenente a nessuna categoria ma condannato a percorrerle, a vederne l’abisso e le vette di ognuna.
Bambino prodigio con notevoli capacità artistiche e di pensiero (scriveva poesie già a 7 anni, a 10 fu bocciato in italiano perché ritennero i suoi temi troppo poetici) a cui gli eventi angoscianti e drammatici hanno offerto la capacità dannata di non fermarsi in una disciplina per una sorta di apolidia e, come segnato dal dramma del fratello, la capacità critica di guardare ad ogni aspetto delle proprie convinzioni, anche smontandole e rimontandole, anche a costo di restare da solo ma mai accomodato nel caldo senso comune. Una sorta di giuramento fatto a se stesso di onestà intellettuale, deciso a pagare di persona ogni angolo recondito delle proprie e altrui contraddizioni. 
Pasolini è il limpido esempio di come gli eventi tragici e laceranti della vita possano essere veicoli di introspezione, di ragionamento, di analisi spietata ma di crescita consapevole.

Questo 2015 segna il quarantennale della sua morte. Quanti articoli, quante celebrazioni; Pasolini è da sempre il personaggio più celebrato dai media e anche questo articolo non sfugge alla ricorrenza. Non si può dimenticare però che Pasolini è da sempre tanto celebrato quanto criticato; ed è forse l’intellettuale che ha ricevuto più censure, stroncature, anche morali e giudiziarie, che elogi ed osanna. E’ stato (ed è) il facile bersaglio di ogni irritato e irritabile critico, perché l’irritante Pasolini compone, si avverte, un’autocritica già all’interno della sua opera, e la più spietata possibile. Di Pasolini, giudice che giudica i giudici tra cui lui stesso, si avverte anzitutto il dramma personale e la capacità di parlarne attraverso le opere, che sono sempre difficilmente catalogabili in quanto già nuovo catalogo, già manifesto di nuova corrente.

Pasolini è quindi assolutamente duale anche nella considerazione della critica: o si ama o si odia. 
Credo sia uno degli effetti della sua non appartenenza; odiato o amato dai poeti perché sommo lirico o prosastico, impoetico o perfetto nella struttura compositiva ma sempre al limite, ai margini; sempre sul filo del rasoio in tutta la sua enorme produzione. In effetti la cosa più difficile di Pasolini è definire Pasolini.
Un poeta? Un drammaturgo? Critico, filosofo, cineasta, saggista o letterato?… ogni definizione, ogni etichetta andrà stretta. Eppure nell’analisi di ogni sua opera si rimane agghiacciati dalla profonda rivoluzione che ha apportato nel tema, nella disciplina affrontata, pur non appartenendovi completamente, pur restando sulla soglia, distaccato. Questa sensazione si ha immediata nella sua produzione visuale, il teatro e il cinema: Pasolini regista e drammaturgo ha stile freddo e impersonale – con rare eccezioni, vedi Mamma Roma e la Magnani – volutamente quasi amatoriale a volte, pur trattando temi profondi e impegnativi. I ruoli che dipinge sono tele dove i personaggi appaiono bizantini e piatti o impersonali come le maschere di una tragedia greca, esaltando la forza dei simboli, dove la prova attoriale è spesso subordinata al messaggio che è sempre terribile e controverso.
La sensazione che si ha difronte ad ogni produzione di Pasolini è di profondo smarrimento che diventa veicolo di riconduzione al ragionamento, a volte forzato da paradossi ed esagerazioni, ma sempre cogente e pronto ad ogni evenienza dolorosa.
Anche la sessualità, duale come sappiamo in lui, è motivo di studio. Sviscerata, liberata dalle parti più trite e scontate, è vista e vissuta appieno nella contraddizione personale che dichiara ma non sbandiera.
Il Pasolini omosessuale non ha nulla di effeminato, è atletico, gran giocatore di calcio e mascolino nei tratti. Gli piacciono le macchine potenti come allo stesso tempo è poeta delicatissimo, lirico ma anche tagliente e prosaico. Indaga nel vizio, nel dolore come nel piacere, mantenendosi studioso e attento spettatore/regista, sempre al limite tra coinvolgimento personale e indagatore dei vizi pubblici. 
In questa ricorrenza, nel vortice di articoli come questo, commemoratori o denigratori tra le righe o più apertamente critici, quello che di più calzante ho letto di Pasolini è stato un breve commento di un giovane poeta marchigiano,Davide Nota, da cui prende l’avvio questo scritto:
“(…) Ma tutto, in PPP, è operazione poetica. La sua sperimentazione estrema, che non ha pari in tutto il Novecento europeo, consiste proprio in questo, nel far deflagrare tutti i confini tradizionali dei generi di trasmissione linguistica. Non esiste un Pasolini poeta, un Pasolini regista e un Pasolini intellettuale se non nella cultura della scissione italiana, che si occupa di campi (lager), di spazi adibiti, di vivisezione. PPP entra da dove si esce, esce da dove si entra, sfascia tutto e agisce come a smembrare un corpo unico con l’intenzione di indebolirlo perché quell’unicum fa paura. (…)
Quindi la sua opera, pur monumentalmente varia, va osservata nella sua interezza. Si comporrà l’esatta fotografia di un ricercatore, di un Leonardo del pensiero che ha sempre premesso la propria esigenza di integrità ad ogni quesito. Integrità fatta di mancanze e lacerazioni se vogliamo, ma di un uomo sempre sulla soglia a guardare dentro le stanze con sguardo profondo proprio per quella sua non appartenenza, non interezza.
Come non intero, non compiuto, una sorta di epitome pasoliniana, è Petrolio
Dirà nel ‘72: « Ho iniziato un libro che mi impegnerà per anni, forse per il resto della mia vita. Non voglio parlarne, però: basti sapere che è una specie di “summa” di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie. »
E infatti, come una Pietà Rondanini, come per una sceneggiatura che ha scritto ma di cui volontariamente ignorava il finale, il romanzo/documento non lo finirà mai. Morirà ucciso 3 anni dopo. Il protagonista Carlo è un essere sdoppiato tra i suoi opposti che spesso si confondono come poi si confonderanno i sessi, e dove spicca anche il Pasolini politico: dagli appunti di Petrolio scomparirà (poi nel 2010 riapparirà per annuncio di Dell’Utri, e da questa provenienza potremmo immaginare da chi e perché fu trafugato) il capitolo Lampi su Eni in cui si sarebbe descritta (uso “sarebbe” perché questa vicenda, che si può a buon titolo catalogare tra le manovre di stato e dei servizi segreti fino agli anni ’70 per il mantenimento dello status quo, è stata ritrattata da Dell’Utri e il manoscritto è scomparso ancora, riaffondando nell’oblio dal 2013) la connivenza tra mafia e politica, tra gli affari del petrolio e gli interessi internazionali, descrivendo, tra gli altri numerosi omicidi e sparizioni misteriose, il caso Eni con Cefis e l’omicidio Mattei.
Questo capitolo a tutt’oggi ha riaperto e poi richiuso – speriamo solo temporaneamente – il processo per il suo omicidio, finora attribuito a Pelosi e alle frequentazioni omosessuali. 
Così anche la sua morte, come tutto in Pasolini, diventa un simbolo con l’aura ancora indefinita ma comunque carico di significati sociali e politici. 
C’è un mito nei Veda, i più antichi testi indiani, che mi torna in mente ogni volta che leggo o guardo o penso a Pasolini: descrive la lotta di Visnu contro un dèmone che non poteva essere ucciso da nessun elemento intero. Né da uomo né da belva, né dal saggio come da un empio e nemmeno durante il giorno o durante la notte, né fuori né dentro qualsiasi luogo e tempo: la sua immortalità era legata al sottile filo delle condizioni di non completezza, di non appartenenza. 
Visnu, che come ogni Dio era potentissimo, questa volta si trovò spiazzato difronte a tanto potere e trovò la soluzione calandosi nell’avatar Narashima: Narashima era metà leone e metà uomo, era metà Dio e metà mortale, era alla metà di ogni virtù e di ogni ignoranza. Era nel mezzo, indefinito, ma da ciascuna essenza riceveva la forza intera. Così uccise il dèmone sul far del giorno, quando non fu più notte e il sole non ancora sorto, sulla soglia di qualunque non-luogo, lo sbranò dal centro del corpo, né sopra né sotto: Visnu era riuscito a essere non intero, ambiguo ma chiarissimo a non appartenersi né appartenere, a distrarsi dalle etichette, dalle condizioni, per assumerne, di ognuna, le forze.

Di Amilcare Caselli