Giuseppe Dell’Acqua, classe ’47, ha avuto la fortuna di iniziare a lavorare con Franco Basaglia fin dai primi giorni triestini, partecipando all’esperienza di trasformazione e chiusura dell’Ospedale Psichiatrico. Tuttora vive a Trieste dove è stato Direttore del Dipartimento di Salute Mentale per diciassette anni fino all’aprile del 2012. Insegna psichiatria sociale presso la Facoltà di Psicologia dell’Ateneo di Trieste. Nel 1988 pubblica “Il folle gesto” che raccoglie l’esperienza sulla questione della perizia psichiatrica e del lavoro presso il carcere e nell’ospedale psichiatrico giudiziario. Nel corso dell’attività lavorativa ha svolto e organizzato consulenze scientifiche e organizzative in varie sedi in Italia, in Europa e nelle Americhe tenendo cicli di conferenze, seminari, verifiche tecniche. Ha pubblicato “Fuori come va? Famiglie e persone con schizofrenia. Manuale per un uso ottimistico delle cure e dei servizi”, rieditato nella III edizione da Feltrinelli (2013). E’ tra i promotori del Forum Salute Mentale, avamposto per la tutela dei diritti delle persone con disturbo mentale. Nel 2007 ha pubblicato “Non ho l’arma che uccide il leone. La vera storia del cambiamento nella Trieste di Basaglia e nel manicomio di San Giovanni”, con un’inedita prefazione di Basaglia, giunto alla III edizioni nel 2014 (Collana 180. Archivio critico della salute mentale. AB editore, Merano). Tra il 2009 e il 2010 è stato consulente scientifico e storico nella realizzazione della miniserie RAI “C’era una volta la città dei matti” sulla vita e il lavoro di Franco Basaglia. Nel 2014 gli viene assegnato il premio Nonino per “ …aver contribuito alla lunga battaglia che ha portato, prima alla trasformazione e quindi alla chiusura degli ospedali psichiatrici.” È ora impegnato nel campo dell’editoria come direttore della collana “180”. Di Antonella Fortuna.
D. Dottor Dell’Acqua, assistiamo al progressivo disimpegno pubblico rispetto alla cosiddetta malattia mentale. Lei cosa osserva dalla sua prospettiva?
R. E’ quanto mai evidente un indebolimento del “sistema di salute mentale”. Non credo sia da attribuire soltanto al disimpegno pubblico. Si parla sempre, spesso con molta approssimazione, di mancanza di risorse e di investimenti. Ma non è solo questo. Io credo che il disimpegno pubblico ha molto più a che vedere con le culture, con la persistenza di modelli teorici e operativi inadeguati, con le “le psichiatrie” della pericolosità, delle porte chiuse, delle contenzioni. In realtà, a ben vedere, l’impegno pubblico in termini di risorse economiche non è trascurabile. I costi per “strutture”, migliaia di posti letto residenziali, troppi, dominano prepotentemente i bilanci. Si spende per riprodurre cronicità, coltivare la malattia, radicare dispositivi istituzionali e poteri economici che finiscono per essere intoccabili, fuori da ogni sensata programmazione. I servizi di salute mentale territoriali sono così soffocati, impediti, ridotti alla miseria dell’ambulatorio e dei servizi di diagnosi e cura ospedalieri. Diventa molto difficile far vivere servizi veramente attraversabili, che rispettino le persone, che si pongano il problema della guarigione, della cura, dell’abitare, del lavoro, della difficile “banalità” della vita quotidiana. Ormai in tutte le regioni, i posti letto residenziali assorbono i due terzi del bilancio per la salute mentale, e questa tendenza sembra essere inarrestabile. Disimpegno pubblico potrebbe essere questo: consumo passivo di risorse senza interrogarsi su quali modelli culturali e a sostegno di quali “psichiatrie” si riproducono quei luoghi di cronicità. Eppure esperienze di superamento di questo stato sono in corso. Investire le risorse che si buttano via a pagare rette per sostenere invece progetti riabilitativi personalizzati, non solo è possibile ma, la dove accade, sono evidenti le possibilità di ripresa che si offrono alle persone. Ecco, intendo questo come disimpegno pubblico: una preoccupante convergenza tra un pubblico che consuma risorse senza nessuna prospettiva sensata di crescita delle reti di servizi e senza nessuna capacità di verifica e una psichiatria che si muove sempre e ancora su acuzie e cronicità. Non sono, tuttavia, né disperato, né pessimista perché vedo ovunque esperienze ricche di prospettive, cittadini e associazioni sensibili e partecipi, operatori competenti e generosi, forme di rapporto pubblico-privato che riescono a privilegiare progetti personalizzati di cura, progetti terapeutici riabilitativi, abitare assistito, formazione, lavoro.
D. In realtà la parola “diagnosi” ha l’etimologia in “dia-gnosis”, “via per la conoscenza”. Non le sembra piuttosto il contorno entro il quale si confina l’Uomo Nero?
R Riflettere sulla questione della diagnosi può chiarire meglio il significato di quanto abbiamo definito “disimpegno pubblico”. Il dominio, la prepotenza direi, della psichiatria farmacologica, del paradigma medico , gioca molto nel riprodurre la “certezza” dei saperi e dell’agire psichiatrico. Affrontiamo la sofferenza delle persone, il loro bisogno di riuscire a esserci, di non scomparire, con strumenti tanto inadeguati quanto a rischio di produrre danni spesso irreversibili. La diagnosi, nella sua presunzione di scientificità, diventa il punto più controverso dei passaggi che oggi rischiamo di fare. Rischiamo di allontanare sempre più lo sguardo dalle persone, dai soggetti, dai bisogni, dai diritti, dai conflitti, dalla ruvidezza delle esistenze. E’ questo il problema che stiamo vivendo. Quando la parola diagnosi diventa dominante, le persone scompaiono. Ai primi di giugno a Pistoia il Forum salute mentale (che io frequento) ha tenuto la sua assemblea nazionale, “Le politiche e la cura. Cittadini, persone, soggetti”, ha voluto rilanciare temi per trovare la passione e l’entusiasmo per le politiche “della liberazione” e per i diritti, e interrogarsi sull’incuria che non ha mai abbandonato il campo delle psichiatrie; per denunciare la diffusione delle “strutture”, che altro non sono che i luoghi della cronicità, il consumo insensato delle risorse, il dominio delle farmacologie, le porte chiuse, le contenzioni, l’isolamento, la persistenza delle nuove forme di internamento dopo l’Opg.
E’ necessario ritornare alle politiche della salute e della salute mentale: riporre al centro, la parola “cura”, persona, cittadino, soggetto, così come è stato all’inizio della lunga storia della deistituzionalizzazione che fortunatamente abbiamo potuto vivere nel nostro paese.
D. L’ombra è il limite oltre il quale sta tutto ciò che come esseri umani non vogliamo incontrare; il folle non è forse l’uomo che dialoga con la sua ombra, vi si confonde a volte, altre la rincorre o la teme, giocandoci?
R. La follia è dentro di noi. Ricordando frammentariamente una conversazione con Basaglia, voglio dire che per noi, per chi ha vissuto il manicomio, il grande teatro della follia, la follia è vita, tragedia, tensione. È una cosa seria. La malattia mentale è il ridicolo, la mistificazione, il vuoto. Una cosa che non c’è, la costruzione a posteriori per occultare l’irrazionalità. È il dominio della Ragione. In questo senso posso riconoscere la follia come tensione, relazione, riconoscimento dell’altro, delle esistenze che ci circondano. La ragione, la diagnosi, la malattia cancellano ogni possibilità di incontro. Le conoscenze che abbiamo potuto acquisire e le profonde conseguenze del cambiamento nei destini delle persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale aprono impensabili possibilità. Con la caduta delle mura del manicomio non ha più senso definire “un dentro e un fuori”. Abbiamo cominciato a incontrarci in uno spazio di mezzo. I varchi aperti da Marco Cavallo sono diventati soglie. Soglie che abbiamo, impreparati, cominciato ad abitare. Nessuno può più immaginarsi “fuori”. Ci incontriamo, conversiamo, ci riconosciamo sulla soglia. Abbiamo qualcosa da scambiare l’uno con gli altri, in un luogo dove non siamo mai né dentro né fuori. Ed è proprio lì che incontro l’Uomo Nero e posso riconoscerlo come l’altro me.
E riconoscere la mia ombra.
D. Secondo la sua visione del panorama nazionale, gli attuali modelli di cura ritengono “centrale” incontrare l’uomo, (comprendendo che chi diventa malato di mente è colui che soffre e vive il dolore della mente) o piuttosto lo dimenticano?
R. Sono tentato di dire che il lavoro che dobbiamo fare è quello di continuare a mettere in moto parole, culture, esperienze che permettano di cogliere il senso della cura, dei luoghi dell’incontro, dei gesti insostituibili dell’accoglienza. Che aiutino a contrastare la smemoratezza, a ricercare nelle poderose esperienze, che pure abbiamo attraversato, il senso del quotidiano, ad avere il coraggio del progetto. Le attuali forme organizzative, il modello medico-psichiatrico che sembra dominare il campo, la prepotente autoreferenzialità delle stesse organizzazioni, la riproduzione di politiche regionali inconfrontabili (20 sistemi differenti di servizi di salute mentale quante sono le regioni) finiscono per mettere “tra parentesi” non la malattia, al contrario mettono all’angolo la storia, le relazioni, le passioni, i sentimenti, le emozioni. Le donne e gli uomini scompaiono, diventa irrilevante il dolore della mente, incomprensibile la sofferenza umanissima. Nel panorama nazionale, purtroppo, questa è l’immagine dominante. Le risorse vengono consumate (distrutte) investendo nelle strutture residenziali che presuppongono e riproducono cronicità e nei servizi ospedalieri (e le innumerevoli case di cura) per l’acuzie. Tutto si consuma nel trionfo di una logica riduttiva, e arcaica. Il Centro di salute mentale, il luogo della cura, dell’incontro, del riconoscimento, la soglia, si riduce ad ambulatorio, a luogo misero incapace di collocarsi nella città, nei luoghi dove si abita, dove si vive, dove è possibile l’incontro. Gli investimenti per queste politiche sono scarsissimi. Le culture della salute mentale scompaiono. La dimensione etica è sconosciuta. Quando i fili delle relazioni possibili diventano sempre più esili è perfino impensabile incontrare l’Uomo.
D. Sembra che le porte degli Opg chiudano, sembra che si aprano le nuove porte delle residenze ( rems) per gli alienati pericolosi. Qual è secondo Lei il senso?
R. Le porte degli ospedali psichiatrici si stanno aprendo. Sono stati chiusi per due secoli ed è ora che si aprano. Questo è un dato di fatto e da qui dobbiamo partire. Il nostro paese con coraggio, ha deciso di scrivere la parola fine sui meccanismi arcaici di internamento sopravvissuti dal XIX secolo fino ad oggi. Conseguenze delle luminose visioni positiviste hanno superato, nella più generale trascuratezza, la Costituzione repubblicana, la legge 180, le nuove possibilità di conoscenza intorno al disturbo mentale che si sono affermate a partire dal secondo dopoguerra, lo sviluppo e il radicamento delle democrazie.
Il passo che stiamo facendo ha uno spessore, culturale, scientifico, politico profondissimo. Il rischio di rallentamenti e di tentazioni regressive sta nelle cose. Nessuno deve illudersi che aperte le porte degli Opg ogni cosa trova giudiziosamente la sua collocazione. Inizia una storia con quel 31 marzo.
Le Rems (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza) sono un passaggio di questa storia. Non è ciò che desideriamo. Il rischio di riproduzione degli stessi meccanismi di annientamento e delle insensatezze dei dispositivi di internamento sono già in agguato. I servizi di salute mentale così come sono organizzati ricorrono massicciamente alle strutture residenziali e finiscono per proporre in alternativa agli Opg strutture residenziali, solo Rems. Da qui dobbiamo riproporre con ostinazione Centri di salute mentale aperti 24 ore, servizi di salute mentale in tutti gli ambiti penitenziari, progetti terapeutici riabilitativi personalizzati. Affrontare ora con maggiore consapevolezza l’arcaicità (la stupidità) dei dispositivi di internamento, segnatamente la misura di sicurezza, eredità pesantissima del codice Rocco del 1930, l’inconsistenza della pericolosità sociale e la fragilità della perizia psichiatrica. Restituire diritti (la legge è uguale per tutti), il diritto a essere giudicati innanzitutto e di essere condannati, se colpevoli! Restituire responsabilità. Il 31 marzo è cominciata un’altra storia e possiamo affrontare diversamente tutta la questione. La legge 81, che definisce le regole per arrivare alla chiusura definitiva degli Opg pone limiti alle misure di sicurezza, ci interroga sulla pericolosità sociale, indica la strada dei progetti personalizzati come prima scelta obbligata in alternativa alla misura di sicurezza detentiva. Dobbiamo renderci conto che in questo mestiere non c’è mai una fine. Il conflitto, la dialettica, lo scontro, l’incontro tra follia e normalità ci sopravviveranno. C’è ancora qualcuno che dice “ma con la legge 180 alla fine cosa è successo? Niente! Si sono chiusi i manicomi, ma poi?”. La risposta è che sì, si sono chiusi i manicomi ma poi è iniziato un cammino lunghissimo. Riprendendo uno slogan del maggio francese; “Ce n’est qu’un début continuons le combat! “, (è soltanto l’inizio, la lotta continua). I passaggi sono lenti ma progressivi, e credo che se confrontassimo la condizione di oggi con quella di allora, non riusciremmo nemmeno a riconoscerla. Se qualcuno mi avesse detto (quarant’anni fa, quando ho iniziato a lavorare), che oggi avremmo aperto le porte ai manicomi giudiziari, avrei pensato “ma questo è matto?”. Di passi ne abbiamo fatti, c’è tanto da fare ancora, e poi ancora, subiremo dei colpi ma è importante che le porte dei “manicomi criminali” si stanno aprendo. Sono ottimista evidentemente. Senza ottimismo questo mestiere non l’avrei potuto nemmeno vedere. – Trieste, 3 giugno 2015