La Speranza è una questione pericolosa: storicamente chi spera è chi attende, chi pericolosamente “aspetta” che qualcuno o qualcosa arrivi a salvare, senza sentirsi impegnato ad essere personalmente spinta e motore.
Culturalmente questa visione dipende da una errata percezione anche del messaggio cristiano – per la verità: un vero e proprio capovolgimento – che ha fatto coincidere questa “attesa” con la rassegnazione. E dunque con l’immobilità. Nessuna spinta, nessuna testa che si solleva: occhi bassi, mani giunte.
E proprio perché abbiamo sviluppato questa equivocata speranza, che oggi – su più fronti – siamo dissennati dalla disperazione. Che cos’è? Scientificamente la disperazione corrisponde alla percezione di impotenza, al sentire che “tanto è inutile” e che sfocia nella espressione tanto cara ai cinici : “chi te lo fa fare?”.
Filosofia terrificante che abbonda sulle bocche di quelli sprezzanti, quelli che additano come don Chisciotte quegli altri a cui il vento “soffia nella testa” .
“Chi te lo fa fare?” è una cultura: quella di chi riconosce che vale la pena solo “se ci guadagni”,
vale la pena prendersi a cuore qualcuno o qualcosa solo se il registro delle entrate è delle uscite è in attivo, solo se riguarda i fatti tuoi e non quelli degli altri, solo se hai garanzie e assicurazioni.
Insomma: loro sono quelli furbi.
Tutti gli altri sono pazzi. Illusi, visionari, idealisti:
tutti gli aggettivi del nostro vocabolario che solitamente adoperiamo per guardare, con tenerezza sì ma anche con compassionevole… disprezzo, quelli che chiamiamo “don Chisciotte” per dire che… fanno ridere.
Eppure, la Speranza così è un equivoco.
Sperare ha la stessa radice etimologica di una parola anglosassone che tutti conosciamo, non foss’altro per un personaggio buffo dei cartoni di tempo fa: speed.
Speed! Allora sperare coincide con la spinta. Chi spera non attende: si muove, si spinge. Alza la testa e muove le gambe.
Sì, incanto e azione. Tutte e due, senza contraddizione.
Ecco: la speranza è il contrario del destino: è rivoluzione.
Sovversione della lamentazione.
“Questo compito richiede al tempo stesso coraggio – virtù politica – e poesia, che è l’arte di fratturare il linguaggio, di infrangere le apparenze.”
Coraggio per scorgere quel che la disperazione – accuratamente – impedisce alla ragione di vedere. Restituire alla ragione visione mediante l’immaginazione.
Ma non si può farlo da soli, non si può intonarlo da sé questo controcanto alla lamentazione. I giorni disperanti sono di tutti. E se non vi fossero, allora sì che si dovrebbe dubitare della ragione che mai dispera. Ma il senso umano del creare è nel non ristagnare in quel disperare. E nel darsi il cambio nel canto, quando giunge la propria ora della lamentazione. Progettare è allora verbo di speranza – scientificamente intesa, non come vaga attitudine ma come spinta all’impresa – e, insieme, verbo di comunione.
E, soprattutto: progettare è verbo. Ovvero: movimento, smottamento, innamoramento. Innamorarsi della realtà coincide col rischio e con la creazione. Col desiderio di ingravidare, col proprio slancio, il reale.
E allora il senso pedagogico della rivoluzione chisciottesca forse è tutto qua: nella scelta tra il Cogito-sul-Divano e il Cogito-su-Clavilegno : l’agire muove dalla spinta al sottrarsi allo scacco ed al cinismo del “non c’è più nulla da fare”.
E il proprium umano è, al cospetto del reale, la possibilità di quella risposta “sorprendente” che, secondo la Arendt, è il miraculum possibile all’umano:
“Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso,
che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile.”
(Arendt, 1988, p. 131).
Estratto da: (2015) Coraggio, virtù politica, poesia. Dal cogito-sul-divano alla HopeSchool, “Amaltea” , X, I
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